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Le vitamine sono spesso associate nell'immaginario collettivo più a pillole e pasticche che ad alimenti. Checché ce ne dicano industrie e pubblicità, tuttavia, benché l’alimentazione umana sia variata molto dall'antichità ai giorni nostri, possiamo ancora ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno per mantenere un buono stato di salute dal cibo tal quale, basta fare scelte oculate e consapevoli quando si tratta di fare la spesa. Per di più, anche il pensiero preventivo del “va beh, io ne prendo in abbondanza, mal che vada me le tengo per quando mi mancano”, non è sempre vero, anzi. Gli integratori sono comunque molto utili (e consigliati) in stati fisiologici particolari (come la gravidanza) o patologici (come in caso di malnutrizione, carenze specifiche, ecc).

Ma cosa sono le vitamine? Beh, non è facile definirle, in quanto sono un gruppo molto eterogeneo di sostanze, con una struttura organica generalmente complessa, ritrovate in diversi materiali biologici (non solo alimenti!). Le varie vitamine, insomma, dal punto di vista chimico non hanno nulla in comune ed è risultato piuttosto difficile per gli scienziati dell’epoca classificarle. Tuttavia, ci sono quattro aspetti che le riguardano tutte:

  • Sono costituenti essenziali di sistemi biochimici o fisiologici della vita animale (e spesso anche di quella vegetale e microbica!), dunque anche per l’uomo;
  • Gli animali hanno perso, in seguito all’evoluzione, la capacità di sintetizzarle in quantità adeguate, devono perciò essere assunte dall’esterno;
  • Le ritroviamo, solitamente, in quantità molto modeste (rispetto a sostanze come acqua, proteine, carboidrati, lipidi e fibre) nei materiali biologici;
  • La loro assenza nell’organismo determina delle sindromi specifiche, sintomo della loro carenza.

Già nell’antichità si sapeva che molte delle nostre malattie derivano da carenze alimentari. Pensate che nel papiro di Eber, risalente al 1150 a.C., si ritrovava già una precisa descrizione dello scorbuto - patologia causata dalla carenza di vitamina C - che già si associava alla dieta povera dei marinai, costretti a consumare solo alimenti conservati, trasportabili sulle navi durante i loro lunghi viaggi. Essi manifestavano emorragie gengivali, apatia, irritabilità, perdita di peso, dolori muscolari e articolari: le vecchie ferite cedevano e le nuove stentavano a guarire. Ma già Ippocrate, nel 420 a.C., ne era a conoscenza. Solo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, tuttavia, tale misteriosa malattia è stata sconfitta, scoprendo che bastava del semplice succo di limone a far regredire la sintomatologia. Allo stesso modo, fin dal 2600 a.C., gli erbari cinesi descrivevano il beriberi, la patologia causata dalla carenza di vitamina B1.

Malgrado fosse stato notato fin da subito il legame con il regime alimentare, solo a partire dal XX secolo si inizia ad accettare l’idea che queste (e altre) malattie potessero essere causate dall’assenza di qualcosa di essenziale, più che dalla presenza di qualcosa di dannoso. Ad esempio, la pellagra – malattia causata dalla carenza di vitamina B3 – veniva collegata al consumo di mais avariato e non alla mancanza di tale vitamina nel cereale, protagonista delle diete poverissime del tempo.

Alla scoperta della vitamina B1 si riconduce il primo rudimentale modello sperimentale animale sull’argomento. Nel 1886 giunge in Indonesia il Dottor Christian Eijkman, per indagare che cosa provoca la malattia nota come beriberi, nome che in malese significa "pecora" (poiché i poveri affetti dalla patologia, in seguito a ptosi del piede, camminano senza appoggiare le dita del piede e il tallone, tenendoli sollevati da terra e sollevando la gamba più del normale, al pari di alcuni animali).

Mentre è alla ricerca dell’agente batterico che si riteneva esserne la causa, egli nota una somiglianza della malattia con una sindrome di paralisi che si manifestava nei polli. Nessuno fa alcun collegamento con l’alimentazione degli animali, finché la sindrome improvvisamente scompare in concomitanza con un cambiamento della dieta dei pennuti: dal riso sbramato a quello integrale. Eijkman intuì e in seguito confermò la relazione fra la dieta e la patologia, osservando che l’incidenza del beriberi nei prigionieri giavanesi a cui venivano date razioni di riso sbramato era del 2,8%, mentre quasi si annullava (0,09%) in quelli nutriti con il riso integrale. Qual era il misterioso fattore che determinava le diverse proprietà dei differenti tipi di riso? Senz’altro si trattava di una sostanza chimica, intuì, poiché gli estratti chimici o acquosi della crusca di riso davano lo stesso risultato. Circa 25 anni dopo, il dottor Casmir Funk si avvicinò all’isolamento del “fattore anti-beriberi” dalla crusca di riso. Fu proprio Funk che, sospettando che tale fattore potesse essere dal punto di vista chimico un’ammina, inventò la parola vitamine, dall’unione dei termini vital e amine (ammina vitale). Quando, in termini decisamente più recenti, fu chiaro che le altre sostanze di questo genere non erano affatto ammine, si rimosse la “e” finale dal termine inglese, che rimase vitamin.

Man mano che la scienza proseguiva, anche i metodi di ricerca si raffinavano. Studi dei primi del Novecento su ratti nutriti con razioni purificate di proteine, grasso, amido e minerali suggerirono la necessità di “fattori di crescita”, che nelle loro diete volutamente mancavano. McCullom e Davis ipotizzarono l’esistenza di due di questi, uno da loro chiamato “fattore liposolubile A” (che doveva trovarsi nel grasso del latte e nel tuorlo d’uovo) che sembrava prevenire la cecità notturna, e l’altro denominato “fattore idrosolubile B” (che invece si ritrovava in frumento, latte e tuorlo d’uovo). Negli anni ’20 si inizio a impiegare il termine “vitamina C” per indicare un fattore idrosolubile sconosciuto che si ritrovava in frutta e verdura e che sembrava prevenire lo scorbuto. Nello stesso periodo viene isolato un altro fattore solubile nei grassi, ma diverso dalla vitamina A, coinvolto nella prevenzione del rachitismo: si coniò così il termine “vitamina D”. Col passare del tempo si capì che il “fattore idrosolubile B” era composto da un insieme di diverse vitamine (oggi si parla di complesso vitaminico B), di natura chimica anche diversa.

Certo il percorso che portò all’identificazione di tutte le vitamine oggi conosciute fu lungo e complesso. Si pensi che per isolare la vitamina B5 furono necessari ben 250kg di fegato di pecora! È grazie a queste valorose pecore, che oggi… ehm, torniamo seri. È grazie al complesso lavoro e alla determinazione nel perseguire la scienza di studiosi e studiose che oggi conosciamo la preziosa importanza delle vitamine nella nostra alimentazione.

ELENA FERRERO

Fonte: "La biochimica degli alimenti" Tom P. Coultate, Ed. Zannichelli, 2005.

Oggi parliamo di MOCA. Non pensate però che si tratti di un articolo sulla famosa caffettiera inventata da Alfonso Bialetti nel 1933, qui si parla di sicurezza alimentare e più nello specifico di quei materiali che tutti i giorni entrano in contatto con gli alimenti che portiamo in tavola. Ma partiamo dal principio.

Sono definiti MOCA quei materiali e oggetti destinati a venire a contatto con gli alimenti (utensili da cucina e da tavola recipienti e contenitori, macchinari per la trasformazione degli alimenti, materiali da imballaggio etc.). Nella società moderna rivestono sempre maggiore importanza proprio gli imballaggi, che sono diventati un elemento essenziale del prodotto in quanto oltre all’aspetto funzionale (protezione da agenti esterni) assumono valenza informativa e pubblicitaria. Lo stesso imballaggio può però alterare il prodotto, ad esempio mediante cessione di sostanze pericolose per la salute. Essendo parte integrante della filiera di produzione agroalimentare i MOCA sono oggetto di un complesso quadro normativo che vede oggi i seguenti principali dispositivi di legge:

• Regolamento (CE) n. 1935/2004 (norma quadro) stabilisce i requisiti generali cui devono rispondere tutti i materiali ed oggetti in questione, mentre misure specifiche contengono disposizioni dettagliate per i singoli materiali (materie plastiche, ceramiche etc). Laddove non esistano leggi UE specifiche, gli Stati membri possono stabilire misure nazionali. In particolare il regolamento stabilisce che tutti i materiali ed oggetti devono essere prodotti conformemente alle buone pratiche di fabbricazione e, in condizioni d’impiego normale o prevedibile, non devono trasferire agli alimenti componenti in quantità tale da:

- costituire un pericolo per la salute umana
- comportare una modifica inaccettabile dei prodotti alimentari
- comportare un deterioramento delle caratteristiche organolettiche.

Figura 1 – Simbolo riprodotto nell’Allegato II del Reg.1935/2004 (rappresenta un bicchiere e una forchetta stilizzati).

• Regolamento (CE) n. 2023/2006 sulle buone pratiche di fabbricazione dei materiali e degli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari. Il regolamento stabilisce che tutti i materiali e oggetti elencati nell’allegato I del Regolamento n. 1935/2004 e le loro combinazioni, nonché i materiali e oggetti riciclati vanno fabbricati nel rispetto delle norme generali e specifiche sulle buone pratiche di fabbricazione, definite in lingua inglese come Good Manufacturing Pratices (GMP).

• il Regolamento (CE) n. 450/2009 (diffuso con nota ministeriale del 10 luglio 2009) stabilisce i requisiti per l’immissione sul mercato dei materiali e degli oggetti attivi ed intelligenti destinati a venire a contatto con gli alimenti.

• il Regolamento (UE) n. 10/2011 (detto anche "Regolamento PIM” Plastic Implementation Measure), direttamente applicabile in tutti gli Stati dell’Unione europea a partire dal 1° maggio 2011 e diffuso con nota ministeriale 12 maggio 2011, definisce norme specifiche per i materiali e gli oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari, inglobando le disposizioni comunitarie nel settore. Questo regolamento è stato successivamente modificato e corretto dal Regolamento (UE) n. 1282/2011 (diffuso con nota ministeriale n. 2484 del 30 gennaio 2012), dal Regolamento (UE) n. 1183/2012, dal Regolamento (UE) n. 202/2014 e dal Regolamento (UE) n. 174/2015.

• D. Lgs. 25 gennaio 1992, n. 108 riguardante l’attuazione della Direttiva 89/109/ CEE concernente i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari, che ribadisce la podestà del Ministro della salute, sentito il Consiglio Superiore di Sanità, di regolamentare i materiali e gli oggetti idonei a venire in contatto con gli alimenti.

Vediamo quali sono i principali materiali utilizzati oggi e le loro caratteristiche:

MATERIALE

CARATTERISTICHE

PERICOLI

VETRO

I principali fattori del suo successo sono l'impermeabilità, l’inerzia chimica, le garanzie igieniche, nonché la grande versatilità e la totale riciclabilità (100%).

Per quanto concerne la sicurezza dell’alimento il vetro è costituito da componenti naturali, quali silice e ossidi di sodio e calcio, che non hanno effetti negativi sulla salute; tuttavia, le sostanze di preoccupazione, come piombo e cadmio, si possono originare dalle vernici e dagli inchiostri di stampa.

CARTA e CARTONE

Gli imballaggi cellulosici (carta e cartone) presentano bassi costi di produzione, possibilità di riciclaggio, leggerezza e flessibilità. I punti deboli sono, invece, la permeabilità ai gas, la scarsa resistenza all’umidità e la debolezza meccanica.

Gli imballaggi cellulosici, come il vetro, sono composti di materiale proveniente da fonti naturali. Tuttavia, gli additivi aggiunti, come agenti sbiancanti o di collaggio, o i polimeri e le cere utilizzati per il rivestimento possono migrare verso il prodotto alimentare e contaminarlo.

METALLI

Nel settore degli imballaggi alimentari rappresentano circa il 5% degli imballaggi utilizzati e trovano largo impiego nelle conserve vegetali, ittiche e di carne. I prodotti comunemente impiegati sono la banda stagnata o “latta” (acciaio rivestito da uno strato di stagno), la banda cromata (acciaio rivestito da uno strato di cromo) e l’alluminio: i prodotti dal supporto in acciaio sono utilizzati soprattutto per l’imballaggio leggero (tappi corona, capsule e coperchi), mentre l’alluminio è utilizzato prevalentemente come scatolame o barattolame (bibite, carni, birra, latte, ecc.) e in fogli o tubetti rigidi e flessibili.

La maggior parte delle lattine è internamente ricoperta con uno strato polimerico (di solito resine fenoliche) e, di conseguenza, lo strato a contatto con l’alimento non è il metallo ma la plastica. Dunque le sostanze di preoccupazione non sono solo i metalli (stagno, cromo, piombo), ma anche le sostanze migranti dallo strato delle lattine, quali additivi, monomeri e altri componenti non classificati.

PLASTICHE

In campo alimentare l’utilizzo delle materie plastiche è relativamente recente rispetto agli altri materiali, ma in continua crescita grazie alle buone proprietà (durezza, resistenza all’urto, bassa conducibilità termica, resistenza ad acidi e basi, ecc.), ad un basso costo di produzione e trasporto, ad una grande versatilità di impiego e alle nuove tendenze di acquisto e consumo (ad esempio il porzionato fresco, i piatti pronti e i prodotti ortofrutticoli di quarta gamma).

I polimeri plastici hanno un alto peso molecolare (5000-1milione D) e dunque la loro disponibilità biologica è trascurabile. Tuttavia, a causa dell’uso di additivi a basso peso molecolare (<1000D) c’è una possibilità di esposizione a questi componenti. In generale le sostanze che possono migrare dai materiali plastici all’alimento sono i monomeri e le sostanze d’avviamento, i catalizzatori, i solventi e gli additivi.

La Migrazione

Con questo termine si intende la capacità dell’imballaggio di cedere sostanze chimiche all’alimento. Il rischio di cessione di sostanze è controllato da test di migrazione globale. Questa prova serve a verificare se, e in quale quantità, vengano cedute sostanze dall’imballaggio, senza identificare in modo specifico il componente ceduto. Esistono limiti massimi di legge oltre ai quali viene negata l’idoneità al contatto con l’alimento.La migrazione avviene se il prodotto alimentare ha capacità estrattive, ossia se per sua natura l’alimento si combina facilmente con i materiali di cui è com- posto l’imballaggio. Ad esempio, un biscotto secco e senza grassi in superficie non ha possibilità di “entrare in contatto diretto” con l’imballaggio, per cui non si creano le condizioni per il passaggio di sostanze. Un olio, invece, presenta una maggiore affinità con le materie plastiche perché i principali polimeri nei loro componenti sono lipofili, cioè si combinano chimicamente con le sostanze grasse e quindi si sciolgono nell’alimento.

 

Bruno Abbruzzese

 

Bibliografia:

  1. ONB, Quaderno tecnico 3. Materiali e oggetti destinati a venire a contatto con i prodottialimentari. A.I.B.A. Editore, Roma, 2014
  2. Ministero della salute. www.salute.gov.it
  3. E. Garbuto “Contaminanti Alimentari: sostanze migranti dagli imballaggi”- Universitàdegli Studi di Padova. 2009
  4. “Confezioni e imballaggi? Vai sul sicuro.” Laboratorio Chimico della Camera diCommercio di Torino. 2009

Il controllo dei corpi estranei da parte delle aziende alimentari sta divenendo processo sempre più importante, a fronte sia delle richieste sempre più stringenti da parte della GDO, sia per garantire un prodotto sempre salubre e sicuro.

Il controllo dei corpi estranei può essere condotto, ad esempio, mediante apposito strumento, denominato metal detector (ne esistono altri, ma che non saranno oggetto della presente trattazione).

La presenza del metal detector (MD), però, non basta da sola a garantire l'ottenimento di prodotti non contaminati da corpi estranei metallici.
Infatti esistono diversi fattori che concorrono ad un efficiente funzionamento del MD, di seguito elencati:

1) Adeguatezza

La scelta del MD dovrebbe basarsi sulla sua adeguatezza/idoneità a quel dato ambiente. Ad esempio, se l'area dello stabilimento ha livelli elevati di igiene e viene sottoposta a frequenti processi di pulizia, il sistema deve essere in grado di sopportare le procedure di lavaggio previste.

2) Posizionamento

Il posizionamento e la progettazione del MD dovrebbero essere determinati eseguendo un'analisi/valutazione del rischio. Ovvero mediante revisione dei processi produttivi e la valutazione del rischio derivante da contaminanti metallici in ogni fase.

Esistono tre possibili applicazioni di MD a seconda dei casi:
a) Conveyor based system (nastro di trasporto): per prodotti confezionati e discreti, in cui il MD fornisce un ultimo controllo prima che il prodotto lasci lo stabilimento.
b) Pipeline system (conduttura): per liquidi, salse e prodotti pompati che, quando confezionati, sono difficili da ispezionare per tutte le tipologie di contaminanti metallici.
c) gravity-free fall system (sistema a caduta): per cereali e altri prodotti in polvere che non possono essere facilmente controllati quando confezionati.

3) Sensibilità

La seguente tabella fornisce una linea-guida riguardo la sensibilità del MD in base alla dimensione della sua apertura. La sensibilità del MD può essere altresì influenzata dai seguenti fattori:
- prodotto, materiale di confezionamento, ambiente produttivo, tipo di presentazione del prodotto.

Altezza apertura

PRODOTTI SECCHI

PRODOTTI UMIDI e CONFEZIONI METALLICHE

Fer

Non Fer

Inox

Fer

Non Fer

Inox

Altezza di 50 mm

0.8-1.0
mm

0.8-1.0
mm

1.2-1.5
mm

1.5 mm

2.0 mm

2.5 mm

Altezza di 125 mm

1.0-1.5
mm

1.2-1.5
mm

1.2-1.5
mm

2.0 mm

2.5 mm

3.5 mm

Altezza di 200 mm

1.2-2.0
mm

1.5-2.0
mm

2.0-2.5
mm

2.5 mm

3.0 mm

4.0 mm


In caso di prodotto umido e confezionato in pellicola metallica, il rilevatore dovrebbe essere impostato al miglior livello di sensibilità che si può ottenere senza causare un numero elevato di falsi positivi.
E' raccomandabile richiedere informazioni riguardo le perfomance del MD al produttore dello stesso. Se del caso, l'azienda può richiedere un campione del prodotto prima di accettare una data specifica di sensibilità, quindi procedere ad impostare sullo strumento la sensibilità che ritiene più adeguata.

Leonardo Francesco de Ruvo

 

 

“... Soltanto in circostanze del tutto eccezionali il latte di una madre può essere considerato non idoneo per il suo bambino. In quelle rare situazioni cliniche dove i neonati non possono, o non devono, essere alimentati al seno della propria madre, la scelta dell'alternativa migliore (latte estratto dal seno della madre, latte di donna fresco da una nutrice sana o latte umano di banca) dipende dalle circostanze individuali...” (WHO/UNICEF. Global strategy for infant and young child feeding. Geneva. Switzerland: WHO; 2003).

L' importanza dell'allattamento al seno per la nutrizione del neonato è ormai ampiamente dimostrata: in letteratura scientifica è disponibile ed in continuo aggiornamento una notevole quantità di studi, in cui si descrivono le caratteristiche peculiari del latte materno ed il suo potenziale. Attraverso l' allattamento il neonato assume nutrienti essenziali ed unici, fondamentali per il suo sviluppo post-natale: da una parte lipidi, glucidi, vitamine, composti bioattivi e proteine con diversa funzionalità ( enzimi digestivi, proteine metaboliche o con funzione antibatterica); dall’altra importanti molecole di regolazione come ormoni, fattori di crescita o altri modulatori chimici, importanti non solo per i processi di digestione ed assorbimento, ma anche per i processi di sintesi tissutale o maturazione del sistema gastrointestinale e neuromotorio. Tramite il veicolo del latte la madre trasferisce al bambino componenti del proprio sistema immunitario, come cellule della linea leucocitaria, immunoglobuline, citochine infiammatorie o fattori immunostimolatori che costituiscono una difesa iniziale contro le prime infezioni; mediante l’allattamento, inoltre, è trasferita parte del microbioma materno, utile a coadiuvare lo sviluppo della flora intestinale del neonato. I bambini allattati al seno, rispetto a quelli svezzati con l' ausilio di sostituti artificiali, presentano meno suscettibilità allo sviluppo di infezioni e minor predisposizione all'insorgenza di patologie neonatali gravi, come l' enterocolite necrotizzante, o di intolleranze alimentari. Tutte queste caratteristiche rendono, quindi, il latte materno unico, fondamentale ed insostituibile almeno nei primi 6 mesi di vita, sia per i neonati a termine che per quelli nati pretermine. A volte, però, la nascita avviene in situazioni particolarmente drammatiche, dal punto di vista sociale o sanitario: un abbandono, un parto prematuro, la presenza di condizioni cliniche gravi per la madre o gravi patologie nel bambino rendono impossibile la nutrizione di quest’ultimo con il latte della propria mamma ed è necessario ricorrere ad alternative. L' utilizzo di formulazioni sostitutive non sempre è possibile o idoneo, sia perché l' alimentazione artificiale rappresenta un significativo fattore di rischio per morbilità e mortalità, sopratutto nei neonati pretermine, sia perché il bambino stesso, a volte, presenta particolari e specifiche condizioni cliniche che non consentono questo tipo di nutrizione. Per questi motivi, quando il latte della madre non è disponibile, il latte umano donato rappresenta l'alternativa migliore. Le BLUD (Banche del Latte Umano Donato) sono strutture operanti in ambito socio-sanitario, associate ai reparti di neonatologia o di terapia intensiva neonatale, il cui servizio è finalizzato a selezionare, raccogliere, controllare, trattare, conservare, distribuire latte umano donato da utilizzare in caso di specifiche necessità mediche. Esse costituiscono un centro di raccolta fisico ed un' importante rete di contatti ed iniziative, finalizzate a promuovere e a divulgare la cultura dell'allattamento al seno e l'attività di ricerca scientifica in merito. Si tratta di enti costituiti a livello internazionale, con sedi dislocate in diversi stati e continenti, tra cui gli Stati Uniti d' America, l' Asia e l' Europa; sono riconosciute ufficialmente per la loro utilità dai rispettivi governi e dall’OMS ( Organizzazione Mondiale della Sanità). In Italia la prima BLUD fu attivata nel 1971 presso l' ospedale Meyer di Firenze ed attualmente si contano su tutto il territorio nazionale almeno 35 sedi operanti, la cui attività è registrata e controllata principalmente presso l'AIBLUD: Associazione Italiana Banche del Latte Umano Donato. Tra le regioni italiane la Toscana presenta il maggior numero di banche e la miglior distribuzione sul territorio, per questo motivo è stato possibile istituire in questa regione, nel 2008, la prima rete coordinata di banche esistente in Europa: la ReBLUD (Rete regionale delle Banche del Latte Umano Donato). Quest’ultima è formata dai centri di Arezzo, Firenze, Grosseto, Lucca, Siena e Lido di Camaiore ed è supportata dal Centro Regionale Donazioni Sangue e dai centri trasfusionali ad esso associati. La costituzione della ReBLUD toscana è stata sancita tramite la Delibera regionale n.315 del 28-04-2008, che rappresenta un primo riconoscimento istituzionale e normativo dell'attività di questi enti. Il servizio fornito dalle BLUD richiama alla memoria l' antica attività del baliatico con cui gli ospedali, orfanotrofi e brefotrofi cercavano, in passato, di gestire il problema della nutrizione dei neonati. A differenza dei vecchi istituti, dove il tasso di mortalità infantile e l’ insorgenza di infezioni pericolose ( gastroenteriti, sifilide e tubercolosi) era altissimo, esse pongono nella loro attività maggior attenzione, oltre all'aspetto socio-assistenziale, agli aspetti clinici ed igienico sanitari dei contesti e delle modalità con cui vengono effettuate le donazioni. Infatti il latte è raccolto da donatrici scrupolosamente selezionate e, una volta ritirato, è sottoposto a bonifica e controlli. La gestione di una BLUD richiede, pertanto, l' espletamento di una serie di pratiche e l' attuazione di procedure e protocolli definiti nel rispetto di regolamenti a livello nazionale ed europeo. Quali sono quindi le indicazioni e le regole dettate dalla normativa vigente in materia? Anzitutto dobbiamo precisare che il latte umano donato è considerato sotto due aspetti normativi. In primo luogo esso è un derivato tissutale, in quanto prodotto da secrezione ghiandolare, quindi è regolamentato secondo leggi e regolamenti vigenti in materia di donazione di cellule e tessuti: delibera regionale n. 315 del 28/04/2008, direttive europee 2004/23/CE, 2006/17/CE e 2015/566/UE ed i decreti legislativi n. 16/2010 e n. 85/2012. In secondo luogo, poiché è destinato all'alimentazione dei neonati pretermine o in condizioni cliniche critiche, rientra perfettamente nella definizione di alimento all'articolo 2 del regolamento. (CE) n. 178/2002:” ...S'intende per alimento qualsiasi sostanza o prodotto, trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di cui si prevede ragionevolmente poter essere ingerito da esseri umani..”. Poiché, come tutti gli alimenti, esso può essere soggetto a contaminazioni o ad alterazioni delle proprie caratteristiche organolettiche, al fine di mantenerne alto il livello di sicurezza e tutelare la salute dei piccoli consumatori a cui è destinato, tutte le varie fasi di produzione e manipolazione (estrazione, trattamento termico, controlli, stoccaggio, trasporto) devono avvenire nell' osservanza della normativa vigente in materia di sicurezza ed igiene degli alimenti: regolamento (CE) n. 178/2002, regolamento (CE) n.852/2004 ed i principi previsti dal sistema di gestione per la sicurezza alimentare HACCP. In proposito ogni stato comunitario ha elaborato specifiche Linee Guida nazionali; in Italia una commissione di lavoro composta da membri del ministero della salute, dell' AIBLUD e da diverse figure sanitarie, appartenenti alla società italiana di Neonatologia, basandosi sui regolamenti europei e sulle evidenze scientifiche disponibili a livello internazionale, ha elaborato una documentazione d'indirizzo con indicazioni specifiche, finalizzate a garantire standard di qualità uniformi su tutto il territorio nazionale. In essa sono definiti i criteri di selezione delle donatrici, le procedure di raccolta e conservazione del latte, gli accertamenti clinici, i controlli analitici, i trattamenti per ridurre la carica microbica, i limiti di accettabilità di quest'ultima, le modalità di stoccaggio del latte in banca, la distribuzione ai centri destinatari ed i protocolli per definire la tracciabilità della donazione. Vediamo quindi nel dettaglio in cosa costituisce l'attività di una BLUD e come si tutela la salubrità del latte materno una volta che esso è stato donato.

Il processo in cui si svolge la donazione può essere suddiviso in cinque fasi distinte:

  1. Cernita ed addestramento delle donatrici: le puerpere sono selezionate in base a criteri clinico sanitari. La banca fornisce ad ogni donatrice selezionata un kit per la raccolta composto da tiralatte (elettrici o manuali), contenitori primari (biberon monouso) ed un codice identificativo per garantire la rintracciabilità della donazione. Inoltre è prevista un' opportuna formazione, dove le donatrici sono addestrate alle modalità di estrazione, all' utilizzo corretto della strumentazione fornita, agli accorgimenti di buona prassi igienica da mantenere dalla raccolta per tutta la conservazione del campione fino al suo ritiro, e alla corretta alimentazione da osservare durante tutto il periodo di allattamento.
  2. Raccolta: il latte materno umano donato non è un alimento conservabile a temperatura ambiente, a causa del facile deterioramento. Una volta raccolto in opportuni contenitori primari, sigillati ermeticamente, deve essere portato a temperatura sotto acqua corrente e successivamente stoccato a -20°C per un tempo massimo di 24 ore; la refrigerazione a 4°C è consentita solo in caso la raccolta non sia completa e debbano essere aggiunte ulteriori aliquote allo stesso campione, in tempi brevi.
  3. Ritiro: la banca ritira, preferibilmente a domicilio tramite operatori specializzati (ostetriche) oppure riceve in consegna dalle donatrici stesse, i campioni opportunamente confezionati ed etichettati. Durante il ritiro ed il trasporto, è necessario che siano adottati tutti gli accorgimenti atti a mantenere la catena del freddo: i campioni sono conservati in contenitori secondari a tenuta termica e condotti in veicoli idonei al trasporto di alimenti congelati. Se la consegna avviene tramite privati, è consigliato l’ uso di borse termiche con ghiaccio secco o pacchetti refrigeranti e congelatori da trasporto; l’uso del ghiaccio comune è vietato.
  4. Manipolazione e controlli: in banca i campioni vengono sottoposti ad analisi sulle proprietà organolettiche e a screening microbiologici, per valutarne il livello di contaminazione e l’idoneità alla donazione. Nei campioni accettati la carica microbica viene abbattuta tramite pastorizzazione secondo il metodo di Holder: trattamento al calore 62.5°C-63°C per 30’. Un ulteriore campionamento di controllo è eseguito alla fine del ciclo di pastorizzazione per verificare la conformità rispetto ai limiti di accettabilità, in merito alla presenza di microrganismi nel campione, definiti nelle Linee Guida.
  5. Stoccaggio: i campioni ritenuti conformi sono imbottigliati ed infine stoccati in appositi congelatori a -20°C, in attesa di utilizzo per un intervallo temporale massimo di 3 mesi.

Durante il processo di raccolta e manipolazione del latte materno umano donato possono incorrere diverse problematiche. In primo luogo può accadere una contaminazione biologica: la presenza di microorganismi nel latte, che una volta assunti dal neonato possono provocare gravi malattie o pericolose tossinfezioni, può verificarsi o perché il latte materno donato costituisce un veicolo tramite cui patogeni, presenti come infezioni croniche o acute nella donatrice, sono trasferiti al bambino; o perché questo alimento, a causa della gran quantità di sostanze nutritizie presenti, una volta estratto può costituire un terreno di coltura ottimale per la crescita microbica. Oltre ad agenti infettivi molto pericolosi, la donatrice potrebbe eliminare nel latte anche composti di sintesi o xenobiotici a cui è stata esposta o che ha assunto mediante l’alimentazione, per particolari abitudini di stile di vita o durante trattamenti terapeutici e/o farmacologici. Queste sostanze costituiscono un pericolo in quanto, una volta assunte dal lattante, possono generare effetti tossici di breve e lungo periodo che possono compromettere la salute psicofisica del bambino. Un’attenta selezione delle puerpere ( attraverso colloqui, controllo anamnestico ed esami ematici) ed un controllo microbiologico dei campioni donati, prima dell’accettazione in banca, consentono di ridurre il rischio di trasmissione di agenti infettivi o di sostanze tossiche e nocive dalla donatrice al ricevente attraverso il veicolo del latte. Tramite la pastorizzazione di Holder si elimina, invece, l’eventuale presenza di Cytomegalovirus (CMV) o una possibile contaminazione microbica, incorsa durante le fasi di raccolta e trasporto nonostante l’attenta applicazione delle procedure di buona prassi igienica raccomandate. La scelta di questa tecnica non è casuale in quanto soddisfa due necessità: abbatte la carica microbica in modo efficace e conserva il più possibile le caratteristiche nutritive dell’alimento. Uno dei problemi maggiori riscontrati è, infatti, la facilità con cui la resa nutrizionale del latte si riduce attraverso le varie manipolazioni e con il passare del tempo. Inoltre, il latte materno umano donato presenta una grande eterogeneità della composizione e del valore energetico: il contenuto in proteine e lipidi ed il quantitativo calorico per uno stesso volume possono variare molto, non solo da una donatrice all’altra, ma anche nella stessa donna per campioni raccolti in periodi di allattamento diversi. I processi di manipolazione e trattamento devono, quindi, avvenire in modo da mantenere alto il livello di sicurezza dell’alimento e di preservare allo stesso tempo il più possibile le sue caratteristiche nutrizionali, fondamentali per l’espletamento del ruolo terapeutico. In alcuni paesi, come la Norvegia ed il Giappone, si utilizza direttamente il latte fresco non trattato, ma si escludono dalla donazione donne con infezioni da CMV; in Italia e nel resto d’Europa, invece, le Linee Guida prediligono il trattamento termico, avvalendosi degli studi e dei dati presenti in merito. Infatti, nel latte trattato con la tecnica di Holder, la componente in lipidi e glucidica si preserva. La frazione proteica totale, invece, sembra alterarsi soprattutto per alcune classi di immunoglobuline, che presentano drastiche riduzioni nei loro livelli di concentrazione, e per molti enzimi digestivi, spesso inattivati. I dati attualmente disponibili in letteratura riguardo gli effetti della pastorizzazione di Holder sulle componenti del latte materno, sul suo contenuto energetico e sulle sue proprietà nutrizionali sono, tuttavia, spesso discordanti e non ancora sufficienti a stabilire se il latte materno umano donato pastorizzato sia qualitativamente diverso da quello fresco, o a definire quale tra i due sia più indicato durante il mantenimento del neonato in terapia intensiva. Quando, all’analisi, una determinata donazione risulta troppo povera in termini nutrizionali, si preferisce comunque miscelarla ad altre più ricche, formando dei pool eterogenei con latte materno di diverse donatrici, oppure si rinforza il campione aggiungendo apposite formulazioni. La verifica delle proprietà organolettiche di ogni campione viene eseguita al momento della sua accettazione in banca, mentre i controlli microbiologici vengono eseguiti sia prima che dopo la pastorizzazione. I limiti di accettabilità del campione, previsti dalle Linee Guida, richiedono che esso venga rifiutato se, negli screening microbiologici pretrattamento, la conta delle unità formanti colonia (ufc) per Staphylococcus aureus risulti essere del valore di 104 ufc/ml; vengono invece accettati i campioni dove sono presenti popolazioni microbiche diverse da Staphylococcus aureus, a prescindere dal valore ottenuto nella conta microbica. Nel monitoraggio post trattamento vengono, invece, scartati tutti i campioni in cui sia presente qualunque tipo di crescita batterica.

 

CRITERI DELLA SELEZIONE DONATRICI   DONAZIONE
Positività a test sierologici e diagnosi clinica affermativa per specifici agenti patogeni Cytomegalovirus ( CMV)

Hepatitis B virus ( HBV)

Hepatitis C virus ( HCV)

Human immunodeficiency virus ( HIV)

Mycobacterium tubercolosis

Treponema pallidum

Accettata

Esclusa

Esclusa

Esclusa

Esclusa se è presente infezione acuta.

Esclusa se è presente infezione acuta.

Presenza di infezioni acute locali che interessano l' area toracica e mammaria Herpes simplex virus (HSV)

Micosi o mastiti locali

Varicella zoster virus (VZV)

Sospesa

Sospesa

Sospesa

Assunzione di determinate sostanze attraverso il regime alimentare o stile di vita Alcolici

Nicotina

Xantine

Esclusa se assunti in quantità elevate

Esclusa

Esclusa se assunte in quantità elevate

Assunzione di droghe o sostanze stupefacenti Anfetamine, cannabinoidi, cocaina, oppioidi. Esclusa
Esposizione a trattamenti o terapie Antitabagismo

Antitumorali

Farmacologici

Sostanze farmacologicamente attive o erboristiche

Trapianti (finestra 6 mesi)

Trasfusioni sangue o emoderivati (finestra 6 mesi)

Esclusa

Esclusa

Richiede valutazione medica

Richiede valutazione medica

Esclusa

Esclusa

Comportamenti da parte della donatrice Rapporti sessuali a rischio (finestra 6 mesi).

Piercing o tatuaggi (finestra 6 mesi)

Esclusa

Esclusa

 

Per quanto riguarda un’eventuale contaminazione chimica, inoltre, sostanze estranee alla normale composizione del latte materno e con effetto potenzialmente nocivo per il neonato potrebbero essere rilasciate, nel tempo, dal materiale di fabbricazione del contenitore. Quest’ultimo potrebbe anche, a seguito di urti e contraccolpi accidentali, rilasciare corpi estranei quali schegge e frammenti pericolosi che, una volta ingeriti, potrebbero provocare lacerazioni, lesioni della mucosa gastro-intestinale ed emorragie lungo il tratto digerente. Una particolare attenzione è riservata, quindi, ai contenitori in cui il latte materno è raccolto e conservato: le Linee Guida definiscono opportuno l’utilizzo di biberon monouso, fabbricati in materiali rigidi e resistenti, che garantiscano di non rilasciare componenti all’alimento nel tempo, e che rimangano inalterati a seguito di procedure con esposizione ad alte temperature e forti escursioni termiche, quali i cicli di lavaggio a termo disinfezione (93°C-100°C per 10’-20’), cicli di pastorizzazione (63°C per 30’) e le fasi di congelamento per stoccaggio (-20°C per 3 mesi). I materiali di fabbricazione suggeriti sono plastica rigida o vetro, riservando particolari raccomandazioni per l‘utilizzo di quest’ultimo per le schegge ed i frammenti che potrebbe disperdere a seguito di colpi o insulti meccanici, e che potrebbero essere o ingeriti dal neonato o generare infortuni negli operatori. Tutti gli imballaggi ed i materiali con cui il latte entra in contatto durante le fasi di raccolta, trasporto e stoccaggio, utilizzati dal servizio BLUD, devono essere quindi conformi a tutta la normativa inerente ai materiali ed oggetti destinati ad entrare in contatto con gli alimenti (MOCA) e alle loro corrette pratiche di fabbricazione (GMP): regolamenti CE n. 1935/2004 sui MOCA, CE n.2023/2006 sulle GMP, 10/2011/UE, che armonizza tutta la disciplina previgente riguardo l’uso della plastica nella fabbricazione di oggetti destinati al contatto con alimenti e la direttiva 2011/8/UE, riguardante le restrizioni ed il divieto ad usare il Bisfenolo A (BPA) nella fabbricazione dei biberon utilizzati per l’alimentazione di bambini di età compresa tra 0-3 anni.

Infine, è necessario ricordare che ogni banca deve garantire la rintracciabilità delle donazioni nel rispetto sia dell’articolo 14 del decreto legislativo n.16/2010 e dell’articolo 8 della direttiva europea 2004/23/CE, per quanto riguarda la tracciabilità del materiale tissutale donato, sia dell’articolo 18 del regolamento CE n. 178/2002, per quanto riguarda la tracciabilità dell’alimento: durante l’accettazione deve sempre essere verificata, quindi, la conformità delle consegne. A proposito, ogni BLUD ha implementato un sistema di etichettatura dei campioni, da utilizzare e mantenere in tutte le fasi della donazione: la banca affida alla volontaria donatrice un codice identificativo univoco, che dovrà contrassegnare tutti i campioni di riferimento estratti. Questo codice deve essere trascritto, insieme alla data di raccolta, dalla donatrice su un’etichetta apposta sia sui contenitori primari, a diretto contatto con l’alimento, che sul contenitore secondario a tenuta termica. Sulle stesse etichette deve essere registrata, in seguito, la data di consegna alla banca da parte dell’ostetrica che opera il ritiro o dell’operatore che accetta il campione. Le etichette vengono mantenute durante tutto il processo di pastorizzazione e stoccaggio e, nel caso vengano fatti dei pool di più donatrici (massimo 6), sono riportati i codici identificativi di ogni unità donante, con le specifiche date relative alla raccolta e al ritiro. Inoltre, viene redatta una documentazione cartacea, contenente le informazioni su tutto il processo e sulla/e donatrice/i, nel rispetto della normativa vigente per la tutela della riservatezza dei dati, che accompagna ogni campione donato al momento della consegna al fine di garantire, in caso di necessità, immediatamente l'identificazione del prodotto. In merito alla rintracciabilità delle donazioni di cellule, tessuti e derivati, i dati anagrafici e sanitari di tutte le donatrici e tutte le informazioni riguardanti le donazioni sono inoltre registrate in uno specifico schedario elettronico e conservate per almeno 30 anni.

In conclusione, le BLUD costituiscono ONLUS a scopo umanitario, senza fine di lucro e non traggono alcun profitto dalle donazioni del latte. Queste organizzazioni rientrano comunque perfettamente nel campo di applicazione dei regolamenti e delle normative in materia di igiene e sicurezza degli alimenti in quanto il latte materno, una volta raccolto per le donazioni, è considerato a tutti gli effetti un alimento e deve essere trattato e manipolato garantendo il livello massimo di sicurezza possibile per la salute dei suoi piccoli destinatari. Il processo, con cui le BLUD raccolgono le varie donazioni e le preparano per renderle disponibili ai centri di neonatologia richiedenti, può essere quindi descritto come una vera e propria filiera produttiva, in cui gli specialisti sanitari che vi operano hanno responsabilità definite sia dalla direttiva 2004/23/CE (per quanto riguarda la donazione di cellule e tessuti), sia dal regolamento CE n. 178/2002 (per quanto riguarda la sicurezza alimentare). In merito a quest’ultimo, essi devono garantire il livello di massima sicurezza possibile del processo di produzione, adottare comportamenti ed eseguire procedure che riflettano le norme in materia d'igiene degli alimenti, contenute nel regolamento CE n. 852/2004, e che siano in linea con i principi sui cui è basato il sistema di gestione per la sicurezza alimentare HACCP. Il valore sociale ed umano apportato dalle BLUD è notevole, tuttavia esistono difficoltà limitanti con cui ci si deve quotidianamente scontrare nell’implementazione di questo servizio sanitario. Anzitutto la gestione di queste attività ha dei costi molto alti, che vengono principalmente mantenuti attraverso sovvenzioni, finanziamenti da parte dello Stato o tramite donazioni volontarie di privati. Una continua e costante campagna di sensibilizzazione verso unità governative e private, al fine di aumentare la disponibilità di fondi e risorse, è necessaria per ampliare e rendere sempre più efficiente il servizio. Per contenere i costi, molte banche non costituiscono unità operative autonome, ma si appoggiano spesso ai centri trasfusionali territoriali locali e agli stessi centri di neonatologia/terapia intensiva neonatale, a cui elargiscono i propri servizi. Il mantenimento di questo servizio richiede, inoltre, una costante disponibilità di donazioni che si cerca di garantire con una continua campagna informativa, rivolta a pubblico ed utenza nei reparti ed ambulatori di ginecologia/ostetricia per reclutare nuove volontarie. Esistono, infine, delle criticità di tipo pratico in quanto le tecnologie attualmente disponibili, con cui il latte umano materno donato viene manipolato, presentano spesso dei limiti e le conoscenze scientifiche ed i dati, presenti in letteratura nel merito, sono ancora troppo esigui e spesso discordanti tra loro. Una continua attività di ricerca sull’argomento è quindi necessaria, non solo per aumentare le conoscenze sulle straordinarie potenzialità nutrizionali e terapeutiche del latte materno, ma anche per individuare ed implementare tecnologie e procedure all’avanguardia, finalizzate a garantire sia il massimo livello di sicurezza igienico-sanitario di questo alimento e del suo processo di manipolazione, sia il massimo livello qualitativo delle sue peculiari ed insostituibili proprietà.

TAMARA SELVAGGIO

Bibliografia:

  1. WHO/UNICEF. “Global strategy for infant and young child feeding”. Geneva, Switzerland: WHO. 2003
  2. Bussini O. “Caratteristiche e destino degli esposti all'ospedale della carità di Todi nei secoli XVIII e XIX”. In: Enfance abandonnée et société en Europe XIVe-XXe siècle. Actes du colloque international de Rome (30 et 31 Janvier 1987) Rome: Ecole française de Rome, 1991; 301-325. Publications de l'Ecole française de Rome, 140; http://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1991_act_140_1_4458
  3. Boati D., Cavallo R., Uberti G. “Una vita per l'infanzia: il Pio Istituto di Maternità di Milano, un'esperienza di 150 anni”. Franco Angeli Edizioni, 2017.
  4. Schimd V.” Salute e nascita. Guida per l'assistenza alla maternità”. Urra Edizioni, 2007.
  5. Italian Association of Human Milk Bank, Arslanoglu S., Bertino E., Spreghini M.R., Moro G. E., et al.” Guidelines for the establishment and operation of a donor human milk bank”. Matern. Fetal. Neonat. 23, 1-20. 2010.
  6. E, Borrello S., Copparoni R., Dall’Olio I., De Nisi G., Fabris C., Guidarelli L., Moro G., Salvadori G., Vicario M., “Linee d’indirizzo nazionale per l’organizzazione e la gestione del latte umano donato nell’ambito della protezione, promozione e sostegno dell’allattamento al seno”. Ministero della Salute GU n.32. 2014
  7. Peila C., Moro G.E., Bertino E., Coscia A., et al. “The Effect of Holder Pasteurisation on Nutrients and Biologically-Active Components in Donor Human Milk: A Review”. Nutrients, 8:477. 2016.
  8. De Halleux V., Rigo J., et al. “Use of donor milk in the neonatal intensive care unit”. Seminars in Fetal & Neonatal Medicine, 22: 23-29. 2017
  9. Stock K., Trawoger R., et al. “Pasteurization of breastmilk decreases the rate of postnatally acquired cytomegalovirus infections, but shows a no significant trend to an increased rate of necrotizing enterocolitis in very preterm infants, a preliminary study”. Breastfeed Med.10: 113-7. 2015
  10. Delibera regionale n.315 del 28-04-2008.
  11. Regolamento (CE) n. 178/2002
  12. Regolamento (CE) n. 852/2004
  13. Regolamento (CE) n.1935/2004
  14. Regolamento (CE) n.2023/2006
  15. Regolamento n. 10/2011/UE
  16. Direttive europea 2004/23/CE,
  17. Direttiva europea 2006/17/CE
  18. Direttiva europea 2011/8/UE
  19. Direttiva europea 2015/566/UE
  20. Decreto legislativo n. 16/2010
  21. Decreto legislativo n. 85/2012
  22. http://www.aiblud.org

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Il processo produttivo del pane può presentare molteplici varianti, dipendenti da fattori tecnologici e umani.

Una classificazione può essere operata sulla base della modalità di impastamento:

1) diretta: definita in inglese “Straight Dough” perché si realizza direttamente l’impasto miscelando tutti gli ingredienti insieme;

2) indiretta: definita in inglese “Sponge and dough” perché si impasta in due o tre tempi, preparando un pre-impasto (“sponge”) e poi aggiungendo a questo gli altri ingredienti.

Nel metodo diretto si impastano tutti gli ingredienti in una volta sola.

Seguono le normali fasi del processo produttivo (vedi figura) e, in particolare, la lievitazione è molto breve, per cui si tratta di una panificazione veloce, che porta però all’ottenimento di un prodotto dall’aroma limitato e dal veloce raffermamento.

Il metodo indiretto prevede invece impastamenti a più riprese.
Uno dei metodi più diffusi è quello del lievito naturale.

Il lievito naturale, o lievito madre, è una porzione di impasto della lavorazione precedente (contiene batteri lattici e lieviti) che viene addizionato di altra farina e acqua (rinfresco) e lasciato lievitare per alcune ore.
Il processo si ripete per circa tre rinfreschi, solitamente effettuati ogni 8 ore.

Ma per quale motivo?
Nel lievito naturale è possibile osservare un'evoluzione caratteristica del microbiota.
Onno e Roussel (1994) hanno riportato che, dopo 8 ore di fermentazione del lievito naturale, è raggiunto un valore costante di pH (circa 4,0) e la fase stazionaria di crescita di lieviti e batteri lattici.
In questo lasso di tempo la popolazione dei lieviti passa da 2 x 106 a 3,6 x 107 UFC/g, mentre i batteri lattici passano da 1 x 108 a 1 x 109 UFC/g.
Tali dati, raccolti dagli studiosi, suffragano la pratica consolidata nel tempo di eseguire rinfreschi ogni 8 ore, al fine di propagare il lievito naturale.

Ad oggi non esiste una definizione normativa per il lievito naturale.
Se ne parla solo in un decreto francese, numero 1074-1993:
« Décret n°93-1074 du 13 septembre 1993 pris pour l'application de la loi du 1er août 1905 en ce qui concerne certaines catégories de pains «
Da qui l’ampia confusione e utilizzo improprio del termine.

Bibliografia:
"Biotecnologie dei prodotti lievitati da forno", M. Gobbetti, A. Corsetti, Casa Editrice Ambrosiana;
"Technologie et microbiologie de la panification au levain", Onno B., Roussel P., Bacteriés lactiques, volume 11, Capo V-5, France, 1994.

Leonardo Francesco de Ruvo

1 Le micotossine e funghi produttori

 

Le micotossine sono metaboliti secondari, tossici per gli animali superiori, prodotti da funghi.

Solitamente il termine micotossina viene riservato a quei prodotti chimici tossici e termostabili, prodotti da talune specie di funghi che colonizzano i raccolti vegetali in campo e i prodotti alimentari in magazzino, in post-raccolta.

I principali prodotti agro-alimentari interessati da questa contaminazione sono i cereali in genere, la frutta secca, il caffè, il cacao, le spezie, i semi oleaginosi, i piselli, i fagioli secchi, i succhi di frutta (specialmente di mela).

Ad oggi sono state riconosciute circa 300 micotossine, con funghi produttori che appartengono principalmente a 3 specie: Aspergillus, Penicillium e Fusarium.

 

Tab. 1.1 Principali micotossine, muffe e prodotti oggetto di contaminazione
Micotossina Muffa Prodotti contaminati
Aflatossina B1 B2 G1 G2 Aspergillus flavus, A. Parasiticus, A. Nomius Arachidi, legumi, mais, altri cereali, noci e mandorle, semi oleosi, frutta secca, latte di bufala
Aflatossina M1 e M2 Metabolismo B1 B2 latte di vacca
Zearalenoni: zearalenone, zearalenolo Fusarium graminearum, F. culmorum Mais e altri cereali
Ocratossina A e B Aspergillus Ochraceus, Penicillium verrucosum e altre specie di Penicillium e Aspergillus Orzo, mais, frumento e latri cereali, pane, paste e altri prodotti da forno,
Tricoteceni:

- Tossina T-2

- Deossinivalenolo

- Fusarenone

- Nivalenolo

- Tricotecine

- Fumonisine

 

 

- F. sporotrichioides

- F. graminearum e culmorum

- F. graminearum e culmorum

- Trichothecium roseum

- Stachibotris atra

- Fusarium spp.

 

- Mais e altri cereali

- Frumento e altri cereali

- Frumento e altri cereali

- Frutta e derivati

- Frutta e derivati

- Mais e altri cereali

Patulina Penicillium expansum e altri Penicillium e Aspergillus Futta e derivati

 

Nella produzione di tossine molti sono i fattori che concorrono, siano essi estrinseci o intrinseci.

I fattori intrinseci sono:

1) il potenziale tossingeno del dato ceppo che può variare nell'ampio intervallo da 1 a 104;

2) il livello di contaminazione iniziale.

Diversamente i fattori estrinseci sono correlati alle condizioni ecologiche:

1) fattori chimici, chimico-fisici e fisici, quindi umidità e acqua libera, T, tempo, substrato favorevole, rapporto CO2/O2.

2) fattori biologici: parassiti, competizione tra ceppi fungini, flora di competizione, stress della pianta, resistenza del substrato genetica e fisica.

 

Tab. 1.2 Alcuni valori di acqua libera in cui preferibilmente si verifica la crescita fungina
Muffa Aw crescita fungo Aw produzione tossina
Aspergillus Flavus 0,78 0,84
Aspergillus parasiticus 0,80 - 0,82 0,83 - 0,87
Aspergillus Ochraceus 0,77 - 0,83 0,83 - 0,87

 

Tab. 1.3 Intervallo di temperatura di sviluppo delle tossine
Muffa (tossina) Temperatura (°C)
Aspergillus (aflatossine, ocratossina) da 24 a 37 °C
Penicillium (ocratossina) da 20 a 32 °C
Fusarium (Zearalenone, Deossinivalenolo) da 15 a 27 °C
 

2 Azioni preventive da attuare in sede di autocontrollo

 

Una caratteristica rilevante delle micotossine è la loro stabilità durante le fasi di stoccaggio e termoresistenza ai trattamenti termici impiegati dall'industria alimentare.

Risulta quindi di fondamentale importanza l'attività di prevenzione, ovvero tutte quelle azioni che vengono intraprese per evitare o limitare lo sviluppo fungino e la successiva produzione di tossine.

Alcune azioni che possono essere intraprese a scopo preventivo sono:

1) GAP, buone pratiche agricole e corretto impiego di anticrittogamici, all'uopo di limitare la crescita dei funghi in campo;

2) quando possibile cernita preliminare dei frutti, eliminando quelli muffiti o che presentano ferite , quindi più predisposti al fenomeno del nesting (particolarmente importante nel caso di produzione di succhi di frutta, dato che i frutti muffiti contengono maggior quantitativi di patulina);

3) lavaggio dei frutti ad alta pressione prima della macinazione, eliminando così le zone muffite e riduzione dei livelli di spore di Penicillium expansum e patulina.

4) controllo dell'umidità di stoccaggio del prodotto. Per il frumento viene considerato sicuro un valore di umidità attorno al 14,5% sul peso;

5) riduzione dei tempi di magazzinaggio delle materie prime, qualora risultasse difficoltoso il controllo dell'umidità della fornitura (parametro rilevante per le piccole realtà che realizzano prodotti da forno, spesso dotate di silos per lo stoccaggio di ridotte dimensioni);

6) definizione di capitolati di fornitura e procedure di accettazione e respingimento del prodotto.

 

 

 

Leonardo Francesco de Ruvo

Tutti i parassiti, in natura, passano attraverso diverse fasi e stadi di sviluppo all'interno di organismi diversi, detti “ospiti intermedi”. L’ultimo stadio avviene in quello che si chiama “ospite definitivo”, in cui il parassita raggiungere l’età adulta, si moltiplica e diffonde nuovi esemplari che seguiranno lo stesso ciclo.

L’Anisakis è un genere di vermi nematodi, ed il suo ciclo vitale si svolge in ambiente marino: le uova si trovano disperse in acqua, e dopo i primi stadi di sviluppo, le larve vengono ingerite dal primo ospite intermedio, il krill (minuscoli crostacei). Il krill infestato viene predato da molte specie di pesci, all'interno dei quali le larve si sviluppano ulteriormente, in attesa di arrivare al loro ospite definitivo, cioè i grandi mammiferi marini, come balene, orche, delfini o foche: una volta raggiunto lo stomaco di questi animali, infatti, il verme si sviluppa fino allo stadio adulto.

Come viene coinvolto quindi l’uomo, in tutto questo? Quando un essere umano si ciba di un pesce infestato da larve di Anisakis, diventa quello che si definisce un “ospite accidentale”.

Nel nostro organismo il verme non riesce a svilupparsi fino allo stadio adulto, come invece avverrebbe in quello di un mammifero marino, ma è in grado di rimanere vitale e causare diverse problematiche. Come in tanti altri casi da malattia parassitaria, la patologia viene causata sia dall'azione meccanica di invasione dei tessuti da parte delle larve, sia dalle interazioni tra le sostanze rilasciate dal parassita ed il sistema immunitario del soggetto ospite. Le specie ittiche più soggette al rischio di infezione da Anisakis, sono pesce sciabola, lampuga, pesce spada, sardine, tonno, acciughe, aringhe, nasello, merluzzo, rana pescatrice e sgombro. E’ inoltre possibile contrarre la parassitosi da cefalopodi e molluschi marini.

Il rischio di infezione per l’uomo, è legato quindi al consumo di pesce crudo o sottoposto a procedimenti (marinatura, salagione, affumicatura ecc.), che non hanno alcun effetto sulla vitalità degli eventuali parassiti presenti.

La Normativa Comunitaria e le Disposizioni Nazionali in materia di sicurezza alimentare prevedono che tutti i prodotti ittici destinati a preparazioni come quelle sopra descritte, vengano sottoposti ad una procedura di “bonifica preventiva”, mantenendoli ad una temperatura inferiore a -20° C, in tutte le loro parti, per almeno 24 ore.

I ristoratori che intendano includere nel menù preparazioni a base di pesce crudo come il sushi e le tartare, o sottoposto a marinature, salagione ecc, possono quindi procedere in due modi:

  • acquistare i prodotti destinati a queste lavorazioni da fornitori che sottopongono il pesce fresco alla bonifica preventiva all'interno dei propri stabilimenti,
  • o provvedere in prima persona ad effettuare la bonifica, servendosi di un abbattitore di temperatura ed adeguando, naturalmente, in tal senso il proprio piano di autocontrollo (con apposita procedura, monitoraggi e registrazioni).

Anche in ambito domestico occorre essere consapevoli dei rischi, specialmente nel nostro Paese, dove tradizionalmente abbiamo numerose preparazioni gastronomiche con specie ittiche a rischio che non prevedono la cottura, come ad esempio le alici marinate. Chi desidera preparare in casa questi prodotti, può naturalmente rivolgersi a dettaglianti che sottopongano il pesce a bonifica preventiva, oppure in alternativa, acquistare il pesce fresco non trattato, osservare attentamente il prodotto per verificare l’eventuale presenza di parassiti visibili (ricordiamo che l’Anisakis si presenta come un verme bianco filiforme, di circa 2 cm), eviscerarlo rapidamente e riporlo in congelatore a -15°C conservandolo così per almeno 96 ore.

Sara Giammarini

Fino allo scorso 16 settembre, per poter esportare merce destinata all’alimentazione umana negli Stati Uniti d’America, bastava collegarsi al sito FDA (Food and drug administration) americano (www.fda.gov), registrare la propria azienda ed i propri importatori sul database dello stesso sito governativo e proseguire alla compilazione della fatidica Prior Notice. Dopo qualche ostacolo non risultava poi così difficile riempire questa pseudo packing list pre-spedizione e ottenere la documentazione per la spedizione della merce in America.

Tutto questo sistema resta  invariato, con la speranza che la nuova amministrazione Trump e la relativa squadra non pongano limiti ulteriori, cambiano però i requisiti di base.

Infatti, dallo scorso 16 Settembre, le aziende del settore alimentare che intendano esportare in USA sono tenute, come le stesse aziende importatrici americane, ad  adeguarsi alla nuova regolamentazione a cui è stato dato il nome di FSMA (Food Safety Modernization Act) azione di  ammodernamento della sicurezza alimentare. (Legge dal 4 Gennaio 2011)

Non sono soggette a cambiamenti le aziende già soggette a U.S. FDA Food Canning Establishment (FCE) Registration and Process Filings (SID) registrazioni per prodotti che vanno richieste prima dell’esportazione e per le quali è doveroso rispondere a delle check list molto specifiche.

Le date per le quali bisogna mettersi in regola variano a seconda delle dimensioni delle aziende:

  • Requisito generale FSMA: entro il 26 Settembre 2016.
  • Aziende alimentari con meno di 500 addetti: entro il 30 Settembre 2017;
  • Produttori alimentari con meno di 1 milione di Dollari di vendite annue entro il 30 Settembre 2018.

È comunque consigliabile, per una serie di dubbi che potrebbero insorgere a chi effettua i controlli, mettersi in regola in tempo per la prima esportazione per gli USA dopo l’entrata in vigore di queste leggi. Inoltre va detto che l’ente, l’azienda, la compagnia importatrice è a tutti gli effetti responsabile di ciò che gli USA importeranno in dogana, per cui molti importatori si stanno attivando per effettuare audit privati presso i fornitori esteri per essere sicuri di promuovere il nuovo regolamento e non imbattere in sanzioni e blocco dei permessi di importazione.

Ciò che succede in pratica è che le aziende esportatrici dovranno adeguare i manuali HACCP aziendali alle nuove procedure di prevenzione emanate dall’FDA e definite dall’ente ad esso collegato: l’FSPCA (Food Safety Prentive Control Allianc). Tale adeguamento dell’HACCP in H.A.R.P.C (Hazard Analysis and Risk-Based Preventive Controls) però, non potrà essere a cura di un consulente qualsiasi, ma di una persona riconosciuta idonea dallo stesso FSPCA.

I consulenti aziendali che si occupano, quindi, di HACCP, sicurezza alimentare, certificazioni estere, possono inviare all’FDA un curriculum vitae in inglese e aspettare che gli venga concessa l’idoneità. Se ciò avvenisse, l’operatore sarebbe inserito in un database governativo come consulente idoneo.  Se così non fosse, l’FSPCA da la  possibilità di effettuare corsi di formazione  nel proprio paese d’origine.  La Food Safety Prentive Control Alliance ha infatti stabilito forme di collaborazione con Enti di controllo europei che potranno effettuare corsi privati per la “produzione” della figura professionale di  PCQI: Preventive Control Qualified Individual il quale avrà la responsabilità di redigere ed attuare il Food Safety Plan aziendale secondo la normativa FDA. Al termine del corso si ottiene, pertanto,  dal  lead instructor qualificato FSPCA un certificato grazie al quale il consulente sarà iscritto al già citato database di Preventive Control Qualified Individuals.

In  conclusione si può ancora dire che se l’azienda esportatrice è un’azienda ben organizzata e ben gestita, non è poi così drammatico mettersi in regola e effettuare l’evoluzione dell’HACCP in HARPC, si tratta,  di implementare qualche procedura di gestione del rischio, di ampliare le vedute se l’azienda ne abbia bisogno e di integrare i documenti anche con copie in lingua inglese.

Attendere l’audit dell’importatore o del controllo governativo americano pertanto continuare a lavorare nel rispetto delle leggi europee che non sono meno esigenti di quelle americane.

Per cui, come in tutti i cambiamenti sarà un ottimo spunto per migliorare la comunicazione e lo scambio in altre latitudini e fare del commercio e dell’esportazione alimentare un porto sicuro.

CLAUDIA BUONOFIGLIO

La questione "fornitori" è sempre stata un punto dolente per molte imprese del settore alimentare.

La gestione spesso si presenta difficoltosa, poco attuabile, fumosa e legata strettamente al potere contrattuale esercitato dalle aziende.

Ahinoi il processo di gestione dei fornitori sta acquisendo sempre più rilevanza a causa del diffondersi di certificazioni come BRC-IFS, FSSC 22000, etc., che richiedono e impongono oculatezza e criteri razionali nella selezione e qualifica dei fornitori.

I fornitori possono essere distinti in due macrocategorie:

  • fornitori di servizi;
  • fornitori di materie prime e imballaggi.

Per la seconda categoria (non tratteremo in questa sede dei fornitori di servizi), la procedura di gestione può articolarsi nel seguente modo:

1) selezione;

2) qualifica;

3) monitoraggio e mantenimento.

 

  1. La fase di selezione può essere attuata mediante la valutazione di alcuni parametri, come:
  • storicità del fornitore;
  • ordini di prova (prove funzionali);
  • presenza di certificazioni di terza parte (in particolare quelle legate alla qualità e sicurezza del prodotto alimentare);
  • risultati di audit condotti direttamente presso gli impianti del fornitore;

 

La scelta del criterio di selezione più appropriato porterà naturalmente a una valutazione più efficace e coerente del fornitore.

La scelta del parametro di selezione deve essere subordinata a una valutazione del rischio per materia prima o tipologia merceologica della stessa.

La valutazione del rischio viene condotta tenendo conto di alcuni fattori come:

  • contaminazione da corpi estranei;
  • contaminazione microbiologica;
  • contaminazione chimica;
  • contraffazioni o frodi;
  • contaminazione da allergeni.

Per la valutazione del rischio si possono quindi utilizzare scale di valutazione della gravità e probabilità del danno.

Alle variabili gravità e probabilità possono essere attribuiti dei valori numerici, il cui prodotto corrisponde al valore del rischio.

Da notare come tale approccio, basato su stime di tipo numerico, non superi completamente l'arbitrarietà nella valutazione del rischio, in quanto l'attribuzione dei punteggi per gravità e probabilità è basata sempre su considerazioni personali, seppur scaturite da analisi dei dati, informazioni e bibliografia disponibile.

  1. La fase di qualifica è strettamente correlata alla fase iniziale di selezione e verterà principalmente sulla redazione e compilazione dell'elenco dei fornitori qualificati.

L'elenco comprenderà i dati relativi al fornitore qualificato, la tipologia di fornitura, il punteggio ottenuto in fase di selezione (se utilizzato come parametro dall'impresa alimentare) e lo stato di validità della qualifica.

Immagine 1. Esempio di foglio di calcolo per la valutazione del rischio
  1. La fase di monitoraggio e mantenimento chiude idealmente la procedura di gestione e implicitamente comprende il processo di rivalutazione del fornitore.

Il monitoraggio del fornitore è attività che può essere condotta mediante controllo diretto sugli approvvigionamenti (es. ispezioni visive sullo stato igienico-sanitario della materia prima, controllo delle temperature di trasporto per deperibili), tempo di evasione dell'ordine, analisi condotte in sede di autocontrollo, verifiche interne di laboratorio in fase di accettazione (vedi test farinografici-alveografici, test rapidi per micotossine e così via), analisi dei reclami da parte dei clienti, etc.

Gli esiti del monitoraggio devono essere poi attentamente valutati dall'azienda (magari annualmente), all'uopo di determinare se un fornitore può mantenere lo status di qualificato oppure no.

Non esistono prescrizioni in merito al mantenimento della qualifica da parte del fornitore.

Indubbiamente sarebbe utile valutare il fornitore in base alla gravità della non conformità per un dato approvvigionamento.

Non conformità che possono essere sia di tipo igienico-sanitario che di tipo economico; starà all'azienda stabilire le proprie priorità e il target più appropriato, indi definire la scala di gravità.

 

Leonardo Francesco de Ruvo

 

 

 

1 - I BATTERI COMUNICANO TRA DI LORO.

Non si può dire che parlino o cantino, così come accade all’uomo o come fanno (in modo più elementare) delfini e balene, ma certo si scambiano informazioni rilasciando nell’ambiente una serie di messaggi che i loro consimili percepiscono. Per esempio, i batteri periodicamente fanno il censimento della popolazione e tastano il terreno, ossia verificano praticamente in tempo reale le condizioni dell’ambiente che li circonda, sia esso l’ambiente esterno o l’interno di un essere animato come una pianta, un animale o l’uomo stesso. In questo contesto i batteri producono e rilasciano nell’ambiente circostante alcuni composti chimici specifici che fungono da trasmettitori del messaggio; altri batteri li captano, li interpretano e rispondono producendo a loro volta dei messaggi, diciamo così, odorosi. Nella società dei corrono costantemente dei segnali chimici, molecole di piccole dimensioni simili agli anticorpi e chiamati autoinduttori. Queste molecole si accumulano al di fuori delle singole cellule microbiche, ma finché la carica microbica è bassa e diluita nell’ambiente esterno non succede nulla. Quando però la stessa popolazione si accresce e supera un certo livello (un quorum, visto come numero legale per una votazione) le molecole che si sono accumulate possono innescare una serie di eventi che si succedono per lo più con effetto “a cascata” determinando qualche reazione o qualche effetto. Questo sistema di comunicazione è chiamato, appunto, quorum sensing.

2 - MIELE E BOTULISMO INFANTILE

È ormai diffusa tra le mamme e tra i pediatri la precauzione di evitare il consumo del miele in bambini fino al raggiungimento di un anno di età, per prevenire il botulismo infantile. Il botulismo infantile, contrariamente a quello alimentare, non è un’intossicazione, in quanto la tossina viene prodotta in particolarissime e rarissime circostanze nell’intestino del neonato e quindi viene assorbita provocando l’insorgenza della malattia. La fonte del botulismo infantile quindi non è la tossina ma le spore, che si trovano naturalmente nell’ambiente e nella polvere e che possono venire a contatto anche con il neonato. La loro germinazione, moltiplicazione e conseguente produzione di tossina nell’intestino sembrerebbe possibile solo grazie ad un dismicrobismo intestinale (alterazione del numero totale dei microrganismi costituenti la flora microbica intestinale e del rapporto tra le varie specie naturalmente presenti nell’intestino) che ridurrebbe il normale effetto antagonista della popolazione intestinale autoctona nei confronti dei clostridi produttori di tossine botuliniche.

3 - LARVE DI TRICHINELLA SPIRALIS E COTTURA A MICROONDE

L’efficacia della cottura a microonde nella distruzione delle larve di T. spiralis è stata studiata da diversi gruppi di ricerca. In uno studio orientato alla produzione domestica – nel quale la maggior parte degli arrosti di maiale infestati da trichine veniva cotto in forni a microonde in base al tempo piu che alla temperatura, Zimmerman e Beach hanno trovato che su 51 prodotti (48 arrosti e 3 braciole di maiale) cotti in 6 forni diversi 9 rimanevano infettivi; di questi, 6 non avevano raggiunto la temperatura di 76,7 °C e 3 l’avevano superata in qualche punto del ciclo di cottura. I ricercatori hanno sottolineato che la carne di maiale infestata sperimentalmente utilizzata nello studio proveniva da maiali infettati con 250.000 T. spiralis, che avevano prodotto circa 1000 trichine per grammo di tessuto rispetto a circa 1 trichina per grammo che normalmente si trova nei maiali infettati naturalmente. La cottura della carne di maiale in forni a microonde costituisce evidentemente un motivo di preoccupazione in relazione alla distruzione delle larve di trichinella.

4 - ENTOMOFAGIA: ASPETTI NUTRIZIONALI

Sebbene finora pochi studi abbiano analizzato le caratteristiche nutrizionali degli insetti e il loro metabolismo negli esseri umani (AA.VV., 2013), è generalmente riconosciuto che essi siano una fonte di cibo nutriente. In generale, gli insetti forniscono energia, proteine, amminoacidi e acidi grassi essenziali benefici per la salute umana, mentre il contenuto di grassi può variare ampiamente tra 7 e 77g per 100 g di peso secco (Belluco et al., 2013). Infine, anche il contenuto di fibre e micronutrienti (vitamine e minerali) è molto elevato (Halloran et al., 2015). Come per molti altri animali, i valori nutrizionali possono variare significativamente da specie a specie, dallo stadio di vita e dal substrato con cui vengono alimentati.

5 - ESISTE UNA “DOSE TOLLERABILE” DI ACRILAMMIDE?

L’acrilammide e la glicidammide, suo metabolita, sono genotossiche e cancerogene. Dal momento che qualsiasi livello di esposizione a una sostanza genotossica potenzialmente ha la capacità di danneggiare il DNA e far insorgere il cancro, gli scienziati dell'EFSA hanno concluso di non poter stabilire una dose giornaliera tollerabile (DGT) di acrilammide negli alimenti. In luogo di ciò gli esperti dell'EFSA hanno stimato l’intervallo di dosaggio entro il quale è probabile che l’acrilammide causi una lieve ma misurabile incidenza di tumori ("effetti neoplastici") o di altri potenziali effetti avversi (neurologici, sullo sviluppo pre e postnatale e sul sistema riproduttivo maschile). Il limite inferiore di questo intervallo viene detto limite inferiore dell’intervallo di confidenza relativo alla dose di riferimento (BMDL10). Per i tumori gli esperti hanno scelto un BMDL10 di 0,17mg/kg pc/giorno. Per altri effetti, i mutamenti neurologici più pertinenti al caso sono stati osservati con un BMDL10 di 0,43 mg/kg pc/giorno. Confrontando il BMDL10 all’esposizione umana all’acrilammide, gli scienziati sono in grado di indicare un “livello di allarme per la salute” noto come “margine di esposizione”.

6 - MORTALITÀ DA LISTERIOSI

La listeriosi umana presenta  tassi di mortalità che possono arrivare fino al 30-40% dei soggetti colpiti, valore che supera quello di altri agenti di malattia alimentare come Salmonella spp. e che si avvicina a quelli di Clostridium botulinum (i cui tassi di mortalità possono andare dal 20-30% fino al 70-80% delle persone colpite). A differenza del botulismo, però, la listeriosi è una malattia alimentare piuttosto frequente: si stima che la sua incidenza tra la popolazione sia di circa 0,7-1 caso/100.000 abitanti se si prendono in considerazione le persone in normali condizioni di salute (soggetti immunocompetenti). Tuttavia, la probabilità di contrarre l’infezione dagli alimenti è tre volte maggiore per le persone con più di 70 anni di età e sale a oltre 17 volte per le donne in gravidanza e i soggetti con compromissione delle difese immunitarie (Siegman-Igra et al., 2002).

7 - MAI LAVARE IL POLLO PRIMA DI CUCINARLO

La FSA ritiene infatti che quando il pollo crudo viene lavato, il Campylobacter, batterio solitamente presente nell’apparato gastroenterico del pollo, può diffondersi repentinamente attraverso gli schizzi d’acqua generati col lavaggio di pollame, oche, anatre e fagiani. La proliferazione del Campylobacter porta alla contrazione della  campylobatteriosi, una malattia che colpisce l’apparato digerente dell’uomo che si manifesta con specifici sintomi, quali diarrea, dolori addominali, vomito e nausea, e nei casi più gravi, mal di testa e febbre. Il batterio potrebbe essere tuttavia eliminato attraverso una cottura a puntino delle carni a patto però che il pollo passi dal frigo direttamente in padella o in forno. Altro passaggio da seguire con meticolosità è quello di lavare per bene il tagliere, i coltelli e altri eventuali utensili impiegati durante la preparazione.

8 - LE BATTERIOCINE NON SONO ANTIBIOTICI

Molti batteri, sia Gram positivi che Gram negativi possono produrre composti di natura proteica (vere proteine o piccoli peptidi) che manifestano attività antimicrobica. Questi composti sono stati chiamati batteriocine. Le batteriocine possono somigliare, come effetto, a un antibiotico, ma non sono da considerare veri antibiotici. Fra le prime e i secondi, infatti, vi sono alcune importanti differenze:

- le batteriocine sono efficaci contro ceppi di batteri che appartengono alla stessa specie che produce le batteriocine o al massimo contro ceppi di specie affini alla specie produttrice. Un antibiotico, invece, può essere efficace contro batteri di varie specie anche molto differenti l’una dall’altra;

- le batteriocine sono prodotte dai ribosomi dei batteri e la loro sintesi avviene nella fase di crescita primaria, mentre gli antibiotici sono di solito dei metaboliti secondari dei microrganismi;

- le batteriocine sono composti quasi sempre di piccolo peso molecolare e sono facilmente degradate da enzimi proteolitici, soprattutto quelle presenti nell’intestino dei mammiferi. Questo le rende praticamente innocue per uso alimentare umano, mentre altrettanto non può dirsi per gli antibiotici.

9 - QUANTA CAFFEINA CONSUMIAMO?

Le assunzioni quotidiane medie, pur variando a seconda degli Stati membri, sono comprese nelle seguenti fasce:

Molto anziani (75 anni e più): 22-417 mg

Anziani (65-75 anni): 23-362 mg

Adulti (18-65 anni): 37-319 mg

Adolescenti (10-18 anni): 0,4-1,4 mg/kg pc

Bambini (3-10 anni): 0,2-2,0 mg/kg pc

Bambini piccoli (12-36 mesi): 0-2,1 mg/kg pc

Nella maggior parte delle indagini i cui dati sono confluiti nella banca dati EFSA sui consumi di alimenti, la fonte predominante di caffeina per gli adulti era il caffè, rappresentando tra il 40% e il 94% dell’assunzione totale. In Irlanda e Regno Unito la fonte principale è risultata il tè, che rappresentava rispettivamente il 59% dell’assunzione totale di caffeina nel primo Paese e il 57% nel secondo. Ci sono grosse differenze tra i Paesi per quanto riguarda il contributo delle diverse fonti alimentari al totale della caffeina assunta dagli adolescenti. Il cioccolato è risultato essere la fonte numero uno in sei sondaggi, il caffè in quattro sondaggi, le bevande a base di cola in tre, e il tè in due. Nella maggior parte dei Paesi il cioccolato (che comprende anche le bevande a base di cacao) è stata la fonte principale di caffeina per i bambini dai 3 ai 10 anni, seguito da tè e bevande alla cola. Un motivo delle differenze nei livelli di consumo – a parte le abitudini culturali – è la concentrazione variabile di caffeina riscontrata in alcuni prodotti alimentari. Le concentrazioni nelle bevande a base di caffè dipendono dal processo produttivo, dalla varietà di chicchi di caffè usati e dalle modalità di preparazione (per es. caffè americano, espresso). I livelli riscontrati nelle bevande a base di cacao variano a seconda della quantità e del tipo di cacao usato dalle varie marche.

10 - SPECIFIC SPOILING MICRO-ORGANISM (SSO)

Gli SSO sono un gruppo molto eterogeneo di batteri, lieviti e muffe; se in un alimento trovano le condizioni idonee per moltiplicare a dismisura, gli SSO con i loro enzimi (endogeni e/o esogeni) possono degradare i componenti dell’alimento modificandone le caratteristiche in modo sgradevole ai nostri sensi, tanto da fare giudicare il prodotto come “alterato”, “deteriorato”, “in putrefazione”. In generale si ammette che un alimento qualunque cominci a manifestare modificazioni evidenti di uno o più caratteri sensoriali quando sulla sua superficie o al suo interno la carica microbica supera le 107-108 ufc/g o /cm2.

Bisogna, però, specificare subito un concetto: gli alimenti si deteriorano NON perché al loro interno la carica microbica cresce in modo omogeneo e disordinato; una parte dei microrganismi che formano la flora microbica, sotto l’effetto dei vari fattori del substrato non riesce a duplicare, mentre altri trovano nella matrice le adatte condizioni di pH, Aw, tensione parziale di ossigeno e temperatura che li favoriscono. Sono questi ultimi gruppi di microrganismi che prendono il sopravvento sugli altri e, moltiplicando a dismisura, fanno andare a male il prodotto. Ecco perché è corretto sostenere che le alterazioni microbiche degli alimenti sono provocate dall’eccessiva proliferazione di solo alcuni gruppi di microrganismi (a volte solo un tipo di batterio o di lievito o di muffa!). E questi microrganismi che, prendendo il sopravvento sugli altri, riescono a deteriorare il prodotto sono chiamati, appunto, “agenti specifici di putrefazione” (in inglese Specific Spoiling micro-Organism SSO).

 

Giovanni Romano